CouRAGE AGAINST THE MACHINE 14 Maggio 2023

Ci vuole un coraggio barbaro: parte da un ricordo d'infanzia, l'editoriale di Alessandra Ingoglia. Famiglia, letteratura, teatro, musica, in tutto questo troviamo il coraggio di ribellarsi, di non lasciarsi abbattere. Il coraggio di vivere.

editoriale di Piano C a cura di Alessandra Ingoglia - Segretaria di compagnia teatrale

Quando mia madre – che è di Salerno e, anche non volendo ricorrere a vieti stereotipi, ha sempre avuto un innato talento melodrammatico – quando mia madre, dicevo, voleva sottolineare la crudezza e la peculiarità di un’azione umana affermava, facendo risuonare nell’aria la sua voce da mezzosoprano e rivolgendo all’interlocutore uno sguardo obliquo: “Ci vuole un coraggio barbaro…”.

Pausa teatrale – per lasciare il tempo di assimilare la portata di queste parole e ricavarne un’immagine precisa.

Ecco, io mi figuravo Il Barbaro – che nella mia mente aveva le sembianze di Diego Abatantuono in “Attila Flagello di Dio”, intento a compiere orride nefandezze (scaccolarsi, mangiare il tegolino senza essersi lavate le mani, cincischiare la gomma-pane per farne munizioni per la cerbottana e altre azioni che mio fratello – non io, lo giuro – compiva a cadenza quotidiana).

Ed è il mio primo ricordo della parola “coraggio”, ancor prima del suo uso nelle sfide tra bambine e bambini, dove la locuzione “Scommetto che non hai il coraggio!” dava la stura ad azioni:

a) ributtanti (mangiare nutella e sottaceti)
b) crudeli (verso gli animali, spesso e volentieri)
c) potenzialmente mortali (lasciarsi scivolare seduti sopra un sacco vuoto dell’immondizia giù da una scala sconnessa e coperta di neve. Che terminava in strada)

Non sono mai stata tanto perversa da lasciarmi trascinare nelle sfide di tipo b), preferivo quelle di tipo a), mio fratello mi coinvolgeva in quelle di tipo c), lasciandomi davanti nella discesa verso la morte. Ma, come si può intuire, i suoi piani sono falliti.

Sul terreno del coraggio e degli ambiti in cui esercitarlo casca, manco a farlo apposta, l’asino del patriarcato. Spiace per l’asino.

Campi in cui una donna esercita il coraggio, according to literature: amore (Anna Karenina, moglie), protezione dei figli (Madre Coraggio, vivandiera), fede (Giovanna d’Arco, pulzella).

Campi in cui un uomo esercita il coraggio, according to literature: sfide con animali (Achab, capitano), battaglie (Achille, semidio – per parte di madre), liberazione di ostaggi (Michele, bambino).

Sì, lo so, la selezione è strumentale a quello che voglio dire, e cioè: il gender gap nell’esercizio del coraggio ricalca quello che si può riscontrare in altri ambiti, ad ogni età (da piccole, in genere la frequenza con cui si compiono grandi imprese è strettamente connesso alla tendenza a riconoscersi nella definizione di… maschiaccio. Insomma, possiamo elevarci al di sopra del nostro sesso, se ci rinunciamo. Pensate a quanto è umiliante per un maschio essere definito una femminuccia).

I personaggi che ho nel cuore come esempi di coraggio sono Catherine (e Heathcliff) di Cime Tempestose, Charlotte (e Eduard) de Le affinità elettive, Miss Amelia Evans de La Ballata del Caffè Triste: quelli che ingaggiano una lotta strenua con il proprio limite, soccombendo. Mi fanno anche più simpatia.

È grazie a mia madre che mi sono innamorata della lettura, perché è sempre stata una sua passione, e del teatro, perché è sempre stato un suo talento naturale.

Ora mia madre ha quasi 80 anni e il morbo di Parkinson, è abbattuta, stanca e spesso arrabbiata. Sono insofferente verso la sua depressione, penso che dovrebbe approfittare di quello che ancora può fare invece che macerarsi per quello che non può più fare. Lei mi rivolge il suo sguardo obliquo, ora che la voce da mezzosoprano risuona meno tonante.

E io capisco quanto coraggio ci vuole a non essere invincibili, a mostrarsi umane nel limite, a non incarnare lo stereotipo della combattente. L’impresa eccezionale è essere normale, diceva Lucio Dalla. Restare nella comfort zone, anziché uscirne.

Ci vuole un coraggio – non barbaro, mamma – per amare i momenti non instagrammabili della vita. Per ascoltare, per non ballare sui tavoli, per essere sole – senza guardare il mare.

Procedendo per associazione di idee e facendo un saluto con la manina al buon Brecht, lego la parola “coraggio” alla parola “madre” e qui, nell’anello successivo di questa catena, il mio cervello mi stupisce: mi vengono in mentre gli Assalti Frontali. Un guilty pleasure che smaschera noi ragazze degli anni ’90 – ragazze del secolo scorso, direbbe Rossana Rossanda.

Nella title track del loro album “Courage”, Militant A, parlando del coraggio che richiede la Resistenza, ricorda sua madre, che era bretone, e ripete la parola con cui lo spronava a non lasciarsi abbattere

Lo faceva anche mia mamma, quando non interpretava la primadonna di una commedia di Eduardo ma un’eroina da film esistenzialista e, di fronte alle mie piccole tragedie da adolescente, mi diceva: “Avanti, bella: courage!”.

Courage ha dentro la RAGE, come quella AGAINST THE MACHINE, la rabbia che accompagna la lotta di chi combatte con i propri mezzi per un obiettivo.

Confuso tra la commedia napoletana, quella all’italiana degli anni ’80 e la nouvelle vague, la musica del secolo scorso e quella di oggi, il mio immaginario intorno alla parola “coraggio” è ondivago. Forse per quello non ho mai capito cosa significhi davvero questa parola.

So di essere stata, nella vita, temeraria, cocciuta, vigliacca. Incosciente, parecchio, per autodistruzione. Non sono sicura di essere stata coraggiosa.

Tornando al teatro, uno degli aggettivi passe-partout per chi vuole fare un commento intelligente dopo aver visto uno spettacolo è: interessante (attenzione, quasi sempre vuol dire: “Non mi è piaciuto, ma mi dispiace dirtelo in faccia”). Al secondo posto c’è: coraggioso. Ecco alcuni esempi di frasi che potreste sentire o sentirvi dire ancora immersi nella foschia post orgasmica di uno spettacolo teatrale appena concluso, quando si è da poco spento l’applauso.

Complimenti, davvero un lavoro coraggioso.
Un testo coraggioso.
Hai fatto una scelta coraggiosa.

Non sottovaluterei la sfumatura ironica che può celarsi dietro frasi di questo tipo (“certo che ci vuol coraggio a mettere in scena una roba così”).

Io ci ho provato a fare del teatro la mia vita, ma sono una geniale dilettante in selvaggia parata (trovate voi la fonte).

Non ho avuto il coraggio di percorrere fino in fondo questa strada?

Forse, ci vuol più coraggio a fare l’impiegata che ad andare sul palco. Sì, me lo dico per consolarmi.

Ma non sottovalutate le impiegate: sapete che lavoro faceva Franz Kafka? Ecco.

Io me lo immagino con che faccia e che cuore andava in ufficio tutti i giorni. Eppure, ci andava – poi è morto di tubercolosi, ma questa è un’altra storia.


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